Rabbini

25 Kislev 5785

Azaryà De Rossi

Rabbì Azaryà De Rossi, storico e ricercatore, nacque a Mantova nel 1513, rampollo di una famiglia che a tutt’oggi conserva la tradizione di essere discendente di quegli Ebrei che Tito deportò a Roma da Gerusalemme.

Si distinse fin dalla più tenera età per la sua passione agli studi di Torà e di ricerca. Fu sicuramente influenzato dall’atmosfera culturale rinascimentale. Studiò a fondo l’ebraico, il latino e l’italiano, si laureò in medicina, si appassionò alla cultura greca e romana, si occupò di storia e letteratura antica. Tutti questi studi minarono la sua salute, che fu sempre piuttosto fragile.

A trent’anni si sposò e si stabilì a Ferrara, e successivamente a Bologna e ad Ancona. Assistette al rogo del Talmùd del 1554, e pare che dopo la cacciata degli Ebrei dagli Stati della Chiesa (1555) sia tornato a Ferrara, dove gli Ebrei vivevano sotto la protezione degli Estensi. Si salvò miracolosamente dal terremoto di Ferrara del 1570. Mentre abitava in una cittadina nei pressi di Ferrara, gli fu chiesto da un dotto cristiano se esistesse una traduzione ebraica dell’apocrifa “Lettera di Aristea”, testo nel quale si parla della traduzione in greco della Bibbia (i Settanta). Si dedicò immediatamente alla traduzione, allegandovi un suo studio sulla traduzione dei Settanta dal titolo “Hadràt Zekenìm”, che costituisce la seconda parte del suo libro più famoso, il “Meòr ‘Enàyim 1 2”. Quest’ultimo lo iniziò nel 1551 e lo terminò nel 1572. Immediatamente si preoccupò di pubblicarlo, ed infatti esso fu stampato a Mantova tra il 1573 ed il 1575. Egli racconta che nel 1575 sognò che gli sarebbero stati concessi ancora tre anni di vita; a quanto pare, il sogno si avverò: morì nel 1578.

Il “Meòr ‘Enàyim” contiene una raccolta di saggi sulla storia d’Israele e sulla sua letteratura. Si sofferma sulle varie sette che esistevano ai tempi del secondo Santuario, sulle guerre di Bar Kokhevà’, sul pensiero di Filone d’Alessandria e su alcuni detti haggadici non interpretabili letteralmente. I suoi dubbi sul conteggi degli anni dalla Creazione suscitarono un vero vespaio. In pratica egli propone di aggiungere un centinaio d’anni al conteggio tradizionale. Alla fine del libro, si occupa di antichità ebraiche e delle vesti sacerdotali, dell’originalità della lingua ebraica e dell’origine della vocalizzazione e dei Teamìm. Rabbì Azaryà fu il primo ad utilizzare l’indagine archeologica per analizzare la letteratura ebraica antica. Il suo scopo primario, da lui dichiarato, fu sempre uno soltanto: la verità scientifica, per raggiungere la quale utilizza il metodo della ricerca, servendosi anche di studi di autori non ebrei.

Il libro suscitò interesse e critiche anche fra i contemporanei. A Rabbì Moshè Provenzali e a Rabbì Itzchàk Finzi il De Rossi rispose con ampie argomentazioni; da una testimonianza di Rabbì Elishà‘ Gallico si sa che Rabbì Yosèf Caro, l’autore dello Shulchàn Arùkh, vietò il libro, e di fatto anche in Italia per lungo tempo fu vietato a chi non avesse almeno 25 anni di leggerlo; ma dopo le sue contro argomentazioni fu tolto ogni divieto, ed il libro fu analizzato e studiato da Ebrei e non ebrei.

Il De Rossi si cimentò anche nella poesia e nel Piyùt, e ci sono pervenuti diversi piyutìm in onore dello Shabbàt.

Nel 1854 ad Idenburg viene pubbilcato il suo libro “Metzarèf la Kesèf“.

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